INSIDE OUT: noi siamo emozioni
di Alberto Pellai, psicoterapeuta
INSIDE OUT
Un film di Pete Docter. Con Amy Poehler, Phyllis Smith, Mindy Kaling, Lewis Black, Bill Hader.
Titolo originale Inside Out. Animazione, Ratings: Kids, durata 94 min. – USA 2015. – Walt Disney
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TRAMA
Riley è una preadolescente cui, improvvisamente, un giorno la vita riserva un cambio di esistenza che lei non avrebbe mai desiderato: un trasloco dal Minnesota a San Francisco derivato da un cambiamento lavorativo del suo papà. Lasciare le proprie certezze e il luogo in cui si è costruito il proprio universo di certezze e relazioni è problematico per tutti. Per una pre-adolescente (Riley lo è) ancora di più. Perché la preadolescenza è quell’età della vita in cui le emozioni sono particolarmente intense e sregolate. Si attivano in modo potente e si deve fare molta fatica per poter tornare in una zona di equilibrio e regolazione.
Il cartone ci mostra nei primi minuti come Riley è riuscita grazie alle relazioni con mamma e papà ad entrare nella prima parte della sua vita (primissima e prima infanzia) a conquistare sicurezza e competenze nella vita. La vediamo nascere e poi crescere senza problemi particolari fino al momento in cui l’evento critico, ovvero il trasloco, compare sulla scena.
Riley sente l’infinita tristezza che comporta il dover abbandonare il suo quartiere, i suoi amici, la sua scuola. E’ così per tutti e viene anche sancito dal detto popolare: Mai lasciare il certo per l’incerto. Anche perché, una volta lasciatisi il Minnesota alle spalle e giunti a San Francisco, la casa che attende la famiglia di Riley per la nuova fase della loro vita è completamente diversa da come se l’erano immaginata. Lo sconforto a questo punto è davvero irrefrenabile, ma la ragazza non lo può manifestare, perché la mamma, travolta e stravolta quanto lei da tutti i cambiamenti in atto, la invita a non “appesantire” la situazione e a cercare di mostrarsi felice e positiva di fronte a tutti i cambiamenti con cui si trova a confrontarsi.
E’ questa mossa della mamma a mettere in difficolta e a tenere in stallo la ragazza. Perché di fronte alla tempesta di emozioni che si scatenano in lei, la richiesta è che lei non esprima e non dica niente: ovvero che faccia “buon viso a cattivo gioco”. Riley cerca di tenere fede alla richiesta della mamma, ma già il primo giorno di scuola tutto diventa caotico e difficile e dopo che l’insegnante le chiede di parlare del Minnesota Riley scoppia in lacrime di fronte ai nuovi compagni. Il cartone a questo punto si sposta nel mondo interno della ragazza e ci mostra tutto quello che fuori invece non può essere manifestato e di conseguenza visto. Protagoniste diventano le cinque emozioni primarie di cui Riley (ma con lei, tutti noi esseri viventi) siamo dotati. Gioia, tristezza, rabbia, disgusto e paura prendono la scena e ci mostrano quanto sia faticoso per un giovanissimo fare “buon viso a cattivo gioco”. Procedendo in un viaggio che si sposta dal mondo dei ricordi a quello dei sogni, Gioia comprende quanto sia importante il ruolo della tristezza e quanto sia inutile da parte sua cercare sempre di disattivarne le funzioni. Quando uno è triste, deve sentire che quell’emozione è valida e anche se dolorosa va attraversato e comunicato a chi può fornirci aiuto. Dando libero sfogo alla propria tristezza, non comprimendola più e non nascondendola più dietro ad una gioia falsa e di facciata, Riley rimette ordine, nella sicurezza delle relazioni famigliari, al caos delle emozioni che erano impazzite dentro di lei e che non era più in grado di gestire. Ora ritroveranno il giusto equilibrio e ad un anno di distanza noi potremo fare la conoscenza di una nuova Riley, più forte e felice e soprattutto perfettamente integrata nella sua nuova realtà.
Cosa ci insegna questo film
Il cartone è incantevole, racconta una storia con cui è facile e possibile identificarsi, ma soprattutto ci permette di entrare nella mente di un bambino e di avere accesso al suo cervello emotivo. Possiamo comprendere che cosa succede quando un bambino è felice o al contrario triste e avere una percezione chiara di come le emozioni rappresentano elementi chiave per avere relazioni efficaci e per costruire un ponte generatore di significati che unisce il nostro “dentro” e il nostro “fuori”. A noi genitori questo cartone insegna a comprendere che i bambini fanno davvero fatica a trovare le parole per comunicarci quello che provano e sentono. Molte volte le nostre aspettative su di loro impedisce a loro di comprendere che ciò che provano e vivono sul versante emotivo, è valido e va condiviso all’interno della relazione con gli adulti che si prendono cura di loro. Così come a succede a Riley, quante volte ai nostri figli succede di sentirsi sbagliati per quello che stanno vivendo, provando, sperimentando? Si pensi ai bambini che se hanno paura o si mettono a piangere per qualcosa che li ha rattristati si sentono dare della “femminuccia” dagli adulti che hanno intorno. O al contrario, si pensi a quante volte le bambine che si arrabbiano vengono invitate a non avere comportamenti definiti “da maschiaccio”. E ancora, quante volte dopo che è nato un fratellino o una sorellina, al primogenito viene costantemente chiesto di manifestare gioia e desiderio di stare con lui, quando, al contrario, si trova probabilmente attraversato da un vissuto di tristezza e di confusione per aver perso la centralità dell’attenzione di mamma e papà e il proprio posto privilegiato all’interno delle relazioni famigliari.
Il messaggio del film
Le emozioni vivono in noi. Vanno sentite, riconosciute, validate, condivise all’interno di una relazione. Solo in questo modo possono essere elaborate e integrate in modo consapevole dentro di noi. I bambini queste operazioni le possono fare solo all’interno di una relazione con gli adulti che di loro si prendono cura. Sono gli adulti che devono sintonizzarsi con gli stati emotivi dei bambini e non viceversa. Come purtroppo, tante volte succede.
Le domande per riflettere dopo la visione del film
I genitori di Riley le chiedono di non mostrare emozioni negative, solo quelle positive in un passaggio complesso della sua vita come è il trasloco in un’altra città. E’ capitato anche a voi, direttamente o indirettamente, di spingere i vostri figli in questa direzione di fronte ad eventi problematici come un lutto (non piangere, perché noi siamo forti!) o l’arrivo di un fratellino (devi essere buono con lui. Non sei felice?) o il primo giorno di scuola?
Come aiutiamo i nostri figli a dare parola alle emozioni? Quali attenzioni specifiche dedichiamo a questo importante aspetto della loro vita interiore?
Che stile avevano i vostri genitori con voi quando eravate bambini rispetto ai vostri vissuti emotivi? Nella vostra famiglia sapevano interagire in modo adeguato con le vostre emozioni negative come la paura, la rabbia o la tristezza?
Vi è mai capitato di ricorrere a punizioni corporali di fronte alle emozioni negative dei vostri bambini? Vi sembra un metodo efficace lo sculaccione per calmare la loro rabbia o i loro capricci? Ci sono altre vie che potreste usare in sostituzione?