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Terza lettera alla Ministra Fedeli relativa al decalogo del MIUR sull’uso dello Smartphone in classe

25 gennaio 2018

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Gentile Ministra,

è la terza volta che le scrivo. Non voglio apparire come uno stalker. Ma le questioni di cui dibatto con lei sono molto importanti per la vita dei nostri figli, che per lei rappresentano gli studenti della scuola che, con il suo ruolo, amministra.

 

 

In questi giorni è stato presentato alla stampa il decalogo emanato dalla sua commissione di esperti e lei ha confermato l’intenzione del Miur di introdurre gli Smartphone in classe, sempre e solo se autorizzati e sotto sorveglianza del corpo insegnante. Lei ha lasciato alla scuola la libertà di decidere se vuole o no – al proprio interno – autorizzarne l’uso in classe (sempre a scopi didattici) ribadendo però che “chi non coglie questa opportunità perde una grande occasione” in quanto non ci sarebbero dubbi sul valore aggiunto che lo Smartphone fornirebbe sul piano dello studio di nuovi contenuti e della conoscenza in generale.

Ecco, io dubbi ne avevo, ne ho e fino a prova contraria continuerò ad averne. Ho concordato con i miei quattro figli che sarebbero stati “padroni” del loro primo smartphone solo al termine della terza media.  Forse loro avrebbero preferito diversamente. Ma alla fine hanno fatto di necessità, virtù. Nel frattempo sia io che i loro docenti ci siamo occupati della loro educazione digitale. Cosa per la quale non pensiamo che sia necessario avere uno smartphone in mano. Lei invece dice di non avere dubbi su questo. Nella mia famiglia, di conseguenza, noi staremmo perdendo un’occasione importante. E con noi, anche molte altre famiglie che hanno fatto la scelta di ritardare l’età del primo smartphone facendola coincidere con gli esami di terza media. Ora, se la scuola dei nostri figli accogliesse il suo invito, noi dovremmo rivedere il nostro progetto educativo su questo aspetto, per noi di importanza fondamentale.

Io constato che molte scuole e classi sono già dotate di LIM (Lavagne Interattive Multimediali) il cui uso è pubblico, aperto a tutta la classe contemporaneamente e non prevede inferenze e interferenze operate dai social network che i singoli soggetti hanno nel proprio “device” e che continuamente interrompono e interferiscono con la fruizione di un contenuto online. So anche, come esperto del settore, che le neuroscienze hanno in più occasioni ribadito che lo studio dei giovanissimi che hanno in mano, sul tavolo o in tasca uno smartphone è meno efficace di quello che connota soggetti di pari età che invece lo tengono in uno spazio separato.

Moltissimi genitori, anche con il consiglio di noi esperti, ogni giorno cercano di far studiare i propri figli in spazi fisici e temporali in cui lo smartphone non è incluso. Significa, cioè, che ad un preadolescente viene richiesto di rimanere per un’ora (o anche solo mezz’ora) in una stanza,  mentre il suo cellulare si trova in un’altra. In quel tempo limitato, qualsiasi siano i messaggi che riceve, non potrà consultarli e quindi molte mamme e papà credono che sia meglio facilitare i compiti di studio, attenzione e concentrazione dei ragazzi in condizioni che sono “smartphone-free”. E sono davvero tanti i genitori che, nelle riunioni di inizio anno, condividono in pieno la decisione della scuola che ribadisce che nelle ore di lezione gli smartphone non sono ammessi. Moltissimi dirigenti hanno adottato l’uso di contenitori in cui i ragazzi depositano – all’ingresso del mattino – il loro smartphone e lo ritirano in uscita alla fine della giornata scolastica. In base alle sue parole, sembra che loro stiano perdendo un’opportunità. Ma in base all’esperienza comune di molti di noi – che siamo docenti, genitori ed esperti di psicologia ed educazione – l’impressione è che ragazzi e ragazze ottengano grazie a queste decisioni e provvedimenti l’opportunità di usufruire di una zona della propria quotidianità che è ancora basata sulle relazioni reali, che utilizza lo sguardo, la voce e l’ascolto come strumenti di comunicazione e costruzione di un contatto – questo sì reale – con chi ci sta a fianco. Anche l’apprendimento, probabilmente, non ne risente. Moltissimi docenti usufruiscono di contributi digitali, si connettono con le LIM ai siti che ritengono utili per i loro obiettivi didattici e utilizzano ausilii di varia natura. Nessuno sente la mancanza di non poter entrare in un motore di ricerca con il proprio smartphone personale.

Allo stesso tempo, queste stesse scuole non sono rimaste indifferenti alla necessità di promuovere una buona educazione digitale dei propri alunni e di favorire comportamenti adeguati quando essi sono nell’online. Però, hanno deciso di promuovere questi insegnamenti nel reale, nel “qui ed ora”, mettendo in relazione gli studenti grazie al metodo del “circle time”, facendoli discutere rispetto a casi concreti verificatisi nella loro comunità oppure apparsi sulle pagine delle cronache locali e nazionali.

Quali sono le competenze da allenare nei nostri figli e studenti che si muovono nell’online? Dobbiamo insegnargli come si fa il click “giusto”, facendoli digitare su una tastiera oppure aiutandoli a esercitare l’uso del pensiero critico, del problem solving, della identificazione di messaggi, immagini e situazioni problematiche? Io penso che se gli insegniamo a pensare prima che “clikkino” sulla loro tastiera e mentre guardano in faccia chi parla e chi esprime opinioni magari differenti dalle loro, ecco….. io credo che poi siano più bravi a gestire la complessità derivante dal dover amministrare tutte queste competenze mentre digitano sulla loro tastiera. Per essere buoni cittadini del web non si deve avere in mano una tastiera, si deve imparare nella vita reale come usare bene quella tastiera che, prima o poi, si avrà in mano. Questa è per me l’educazione digitale.

Un lungo training formativo, basato sull’allenamento di quelle che l’Organizzazione Mondiale della Salute chiama Life Skills e intorno alle quali ha sviluppato un’educazione chiamata Life Skills Based Education (LSBE), un’ educazione che si fa tra persone reali e non in contesti virtuali. Ho da poco pubblicato con Barbara Tamborini un libro intitolato “Il metodo famiglia felice. Come allenare i figli alla vita” (De Agostini): forniamo indicazioni teoriche e pratiche ai genitori per attenzionare le sei dimensioni su cui si fonda l’autostima di ciascuno di noi, che in parte decreta poi il nostro successo nella vita. Le tecnologie non le abbiamo incluse: eppure siamo convinti di non avere omesso qualcosa di fondamentale. E siamo più che convinti che almeno fino ai 13 anni gli smartphone non siano un ingrediente della felicità di chi sta crescendo. Ma che al contrario rischino di metterla in serio pericolo. Sembra che così la pensi anche il suo equivalente in funzione, Ministro della Scuola, che vive, agisce e opera in Francia e che ha invitato le scuole della sua nazione a non considerare lo smartphone come strumento di intervento didattico all’interno delle attività svolte con gli studenti.

E se avesse ragione la Francia?

E se le cose che le ho scritto in questa terza lettera fossero più vere di quelle che ha affermato lei?

Difficile dire ora se ha ragione lei o il Ministro francese. Però, la prego, parli con più genitori possibili nelle prossime settimane. Chieda alle mamme e ai papà se, dopo l’introduzione dello smartphone nelle vite dei loro figli, il loro quoziente di felicità familiare si è incrementato. E se anche il profitto scolastico dei loro figli è decollato. Ecco, faccia fare anche questa ricerca ai suoi esperti. Poi tutti insieme tirate le debite conclusioni.

Con la stima di sempre.

Alberto Pellai

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