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Comunicazione e processi di pensiero degli adolescenti tecnologici: sono ancora in grado di pensare?

di Maura Manca, Psicologa

16 aprile 2019

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Il massiccio uso che si fa delle comunicazioni multimediali e il linguaggio sintetico utilizzato dalla e-generation, che comunica appunto attraverso messaggi vocali, storie, video, hashtag, emoticon e selfie, rischiano di modificare le loro funzioni cognitive ed emotive.

Smartphone e app, soprattutto quelle di messaggistica istantanea o i social network come Instagram, che ormai utilizzano tutti fin dall’infanzia, anche se non potrebbero farne accesso, sono parte integrante della loro vita e rappresentano una protesi della loro identità: per questo non serve fare la guerra alla tecnologia, ma insegnargli ad usare quegli strumenti fanno parte integrante del mondo in cui vivono, che fondamentalmente utilizzano tutti e che vedono maneggiare in primis dalle figure di accudimento, dai genitori e da chi li accudisce, fin da quando sono piccolini. La loro comunicazione è fondamentalmente  basata e mediata da App e ruota intorno a tutto ciò che è social, e oggi viene sostituita dai messaggi vocali che annullano giorno dopo giorno la scrittura, che sta diventando sempre più povera e smart.

Quello che di frequente ci dimentichiamo, però, sono i differenti punti di vista e l’abisso che c’è tra genitori e figli, che crea diversità nel modo di pensare e di approcciarsi per cui tante volte, ciò che per gli adulti rappresenta un problema, per i ragazzi invece è l’assoluta normalità:

Quello che la maggior parte di voi adulti non riesce a vedere, è quale sia il ruolo effettivo che lo smartphone ha nelle nostre vite. Il telefono non è per noi solamente uno strumento che permette di essere connessi ad internet per cercare una strada, una ricetta o una notizia. È il nostro modo di comunicare, attorno al quale costruiamo dei rapporti, che sono rapporti reali, non semplici chat e scambi di faccine. La maggior parte di noi non fa un uso ossessivo o distorto del telefono, come molti di voi adulti possono pensare. Certo, avendo la possibilità di accedere a qualsiasi tipologia di sito internet, una presenza da parte dei genitori, almeno fino ai quattordici-quindici anni, è necessaria. Ma le ore che trascorriamo con il telefono in mano, sono l’equivalente del tempo che voi avete speso ascoltando la musica, andando al parco o stando in piazza con gli amici. Non sono ore sprecate a fare niente, sono il nostro modo di relazionarci con la quotidianità con la quale abbiamo a che fare tutti i giorni” tratto dal libro Generazione Hashtag.

Oggi i più giovani imparano sempre meno da un processo di apprendimento basato sul ragionamento e sulla comprensione, ma piuttosto attraverso un processo incentrato sulla condivisione e sulla riproduzione. In questo modo rischiamo di trovarci davanti ragazzi che si districano egregiamente nel mondo digitale e virtuale, che sono in grado di elaborare più input contemporaneamente, che apprendono e si esprimono in multitasking, ma che sono nel contempo poco efficaci nel mondo reale, soprattutto perché manifestano difficoltà nell’organizzarsi nei tempi e nello spazio. In tanti casi, non hanno un approccio risolutivo nelle strategie di problem solving, nonostante siano perfettamente in grado di cercare l’app giusta che possa farlo al posto loro, fungendo da memoria esterna e da rassicurazione in modo da non assumersi direttamente la responsabilità. Per questo i genitori devono tenere conto di questi aspetti e compensare queste difficoltà che possono diventare carenze. Devono spronarli a pensare e a riflettere di più, a risolvere i problemi nel quotidiano senza il loro aiuto e senza quello di uno smartphone, organizzarsi, tollerare la frustrazione e l’attesa e soprattutto investire sul confronto con l’altro e sulle dinamiche relazionali che in rete sono estremamente differenti rispetto ad avere un contatto e una vicinanza fisica e diretta. Non possiamo dire che i rapporti che creano non siano reali perché li hanno con persone fisiche, non parlano con un robot ma attraverso uno strumento. La distanza e lo schermo però influiscono e condizionano la dinamica relazionale che vanno ad instaurare.

Il massiccio uso che si fa delle comunicazioni multimediali e il linguaggio sintetico utilizzato dalla e-generation che comunica appunto attraverso messaggi vocali, storie, video, hashtag, emoticon e selfie, rischiano di modificare le funzioni cognitive ed emotive degli adolescenti, che sono ancora in via di sviluppo, predisponendoli alla strutturazione di una forma di pensiero che può risultare eccessivamente sintetica.

Dove è finita la capacità di pianificare, realizzare e creare?

La creatività, intesa come capacità di rendere concreta un’idea, in questo modo rischia di essere azzerata o minimizzata. Si sta affievolendo sempre di più anche la capacità di realizzare, che può inficiare anche le capacità di progettazione. Si è arrivati, infatti, ad avere un’immediatezza nell’esecuzione e non nell’elaborazione. È vero che i ragazzi devono imparare ad utilizzare le applicazioni, ma una volta appreso il funzionamento, cosa che avviene ormai molto velocemente in cervelli predisposti alla tecnologia, si tende a farlo sempre più rapidamente, senza più pensare e quindi attivare il cervello. Questo non deve preoccupare e non deve spingere a demonizzare la tecnologia, anche perché l’evoluzione tecnologica non si può più arrestare e non si può più evitare, per cui bisogna integrarlo ed equilibrarlo per evitare che si perdano degli aspetti importanti e che si goda a pieno delle risorse della tecnologia. Anche la scuola dovrebbe tenerne conto e adattare il metodo didattico agli evidenti cambiamenti della società che ci circonda.

Gli adolescenti però sono spesso creatori ed inventori di modalità di utilizzo innovative o di forme comunicative ed espressive nuove: sono in un certo senso produttori, non come spesso pensiamo erroneamente fruitori passivi, che subiscono la tecnologia. Infatti, secondo Davis e Gardner (2014), “i giovani di quest’epoca non sono solo immersi nelle app, ma sono giunti a vedere il mondo come un insieme di app e le loro stesse vite come una serie ordinata di app, o forse, in molti casi, come un’unica app che funziona dalla culla alla tomba”.

 

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