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Bambini e adolescenti razzisti. Da dove nasce questo odio verso chi è diverso da noi?

di Maura Manca, Psicologa

17 dicembre 2019

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Razzisti si nasce o si diventa? Anche i più piccoli possono essere razzisti? Sono alcune delle domande che spesso ci facciamo. È indubbio che tutti noi nutriamo una sorta di timore ancestrale verso l’altro, il diverso e il nuovo, per ciò che non conosciamo. È un meccanismo di autodifesa, di conservazione, presente in tutti noi, anche in chi si definisce «non razzista». L’uomo però non è solo istinto e deve far prendere il sopravvento ad altre componenti come quella emotiva e del pensiero in modo tale da regolare le nostre azioni.

La persona razzista può essere intesa come “colui che pensa che tutto ciò che è troppo differente da lui lo minacci nella sua tranquillità: ha paura dello straniero senza una ragione valida” come sostiene Tahar Ben Jelloun.

Io credo che in tante occasioni siano molto più razzisti i genitori, come tristemente evidenziano i sempre più frequenti casi di cronaca che offrono una testimonianza di una marcata presenza di questi comportamenti diseducativi. Spesso i più piccoli riproducono ciò che sentono e che vedono soprattutto all’interno delle mura domestiche. Per questa ragione bisogna stare molto attenti alle parole e alle frasi che si utilizzano in loro presenza.

Spesso i bambini non feriscono l’altra persona con intenzionalità. Loro notano velocemente ogni tipo di diversità, in tanti casi hanno un approccio molto diretto ed esplicito, e rischiano di esprimere quel pensiero a livello verbale o comportamentale senza troppi filtri. Per evitare che questa modalità diventi la loro “normalità” deve assolutamente entrare in gioco l’adulto per bloccare questo processo e spigare i concetti fondamentali di tolleranza, rispetto e differenze individuali. Se non li educhiamo a rispettare le differenze individuali, non facciamo altro che annullare la nostra natura umana. Per fortuna esistono le differenze tra persone, sono per tutti noi una crescita e un arricchimento. Si deve insegnare al bambino a non stigmatizzare le diversità ma a farle proprie. Devono capire che ci sono caratteri più forti e più deboli, temperamenti più reattivi e più remissivi, ci sono i creativi e gli esecutori, coloro che sono più dominanti e altri che sono più gregari; fondamentalmente che ognuno ha i suoi tempi e le sue modalità e che non siamo tutti uguali. Non c’è chi è migliore o peggiore, non c’è un vincente o un perdente; c’è chi vince e c’è chi perde, chi fa una cosa e chi ne fa un’altra, chi è in un modo e chi è in un altro: sarebbe tutto così potenzialmente semplice, eppure rendiamo sempre tutto così complesso.

Dobbiamo riprendere a credere nell’essere umano e a trasmettere ancora ideali ai ragazzi per evitare che si annulli la loro capacità critica e di pensiero e, soprattutto, la loro voglia di credere e di sognare. Se smettessimo di pensare non saremo più liberi, ma condizionabili come dei burattini. Se fossimo in grado di ragionare e sfruttare le nostre capacità e conoscenze, al contrario, manterremmo attiva la facoltà di scelta e quindi la nostra libertà.

In questo calderone di diverse sfumature, ci sono ragazzi più grandi che hanno quindi già sviluppato la capacità di discernimento, ma che si comportano lo stesso come non dovrebbero comportarsi. Alcuni di loro sostengono di essere razzisti ma non lo sono, si dichiarano tali come se avessero bisogno di sentirsi forti con queste affermazioni che non hanno radici nella loro psiche ma che spesso sono solo il frutto di una emulazione di gruppo. Ci sono però anche ragazzi che lo sono veramente, che scaricano il proprio malessere sull’altro attraverso parole e comportamenti violenti. Per esempio, il bullismo rivolto nei confronti di ragazzi stranieri è molto diffuso nelle scuole italiane. Spesso vengono presi in giro per il colore della pelle, gli vengono dati degli spiacevoli nomignoli o appellativi poco carini e tante volte sono costretti anche a subire forme di emarginazione o di violenza fisica.

Per favorire una cultura dell’integrazione dobbiamo prima crederci e quindi crearla. La scuola e la famiglia dovrebbero partire dall’imparare nuovamente il rispetto e la tolleranza dei ruoli reciprochi, smetterla di attaccarsi l’un l’altro, ma dare il primo segno di civiltà e di unione. Solo in seguito si potrebbe riprendere a parlare di lavoro contro il razzismo e integrazione. L’educazione e la cultura in cui vivono e crescono cambia le loro menti e gli insegna a pensare, oltre che a essere gli adulti di domani. Dobbiamo partire fin da quando sono piccoli a lavorare sull’altro come ricchezza e sul rispetto di tutto e di tutti. Senza basi solide, è sempre difficile correggere il tiro in corsa.

 

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