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Alimenti tipici: l’eccellenza del made in Italy

di Giorgio Donegani, Tecnologo alimentare

19 novembre 2019

1463 Views

Girando per l’Italia si possono gustare più di 500 formaggi diversi, oltre 300 tipi di salumi e centinaia di conserve, dolci, pani… un vero tesoro di sapore e di cultura che tutto il mondo ci invidia e che è legato alla varietà del nostro territorio e alla storia della gente che lo abita. Ma il “tipico” italiano è anche una scelta di salute e benessere…

Made in Italy: all’insegna della biodiversità

I dati pubblicati recentemente dall’Osservatorio Immagino, realizzato da Nielsen – GS1 Italy per monitorare i nostri consumi, parlano chiaro: il cibo made in Italy piace moltissimo, e i primi ad apprezzarlo siamo proprio noi italiani, al punto che su oltre 72.000 prodotti considerati dall’osservatorio, addirittura il 36% riporta in etichetta un’indicazione che in qualche modo si riferisce all’italianità. Poco importa che si scelga di raffigurare sulla confezione la bandiera tricolore, oppure di l’indicazione “prodotto in Italia” o “100% italiano” (il claim che nel 2018 ha riscosso il miglior successo di vendita), il dato essenziale è che il cibo prodotto nel nostro Paese è considerato avere una marcia in più. Da dove le viene? Da una somma di fattori che riguardano sia l’ambiente, sia le persone che lo abitano.

Un territorio fortunato

Basta guardare la carta geografica per rendersi conto di quanto siamo fortunati rispetto ad altri paesi: dal Nord al sud l’Italia si allunga su diverse latitudini, e questo permette già di sfruttare quello che i tecnici chiamano “effetto parallelo”. In pratica, sfruttando la diversità climatica, si riesce a coltivare un’incredibile quantità di vegetali, in ogni periodo dell’anno. Si pensi, per esempio, che le fragole fanno la loro comparsa a marzo in Sicilia e poi via via la loro coltivazione si sposta verso il Nord e in Veneto possiamo trovare fragole fresche anche in ottobre. In più, sempre osservando il territorio, è facile rendersi conto di come in Italia non manchi proprio nulla: le montagne (prime tra tutte le Alpi e gli Appennini), le pianure, le colline (meravigliose quelle toscane, ma non sono certo le sole), laghi, fiumi, e coste che si estendono per gran parte del perimetro dello stivale. Senza dimenticare l’ambiente tipico delle isole… Tutto questo si traduce in una parola che è garanzia insieme di gusto e di salute per l’uomo e per l’ambiente: “biodiversità”. Solo per fare qualche esempio, abbiamo più di 400 varietà di cavoli, centinaia di varietà di mele, e il nostro è anche l’unico paese al mondo dove si ritrova il pregiatissimo tartufo bianco (con una piccola estensione nell’Istria).

Il fattore umano

La conformazione favorevole del nostro territorio servirebbe però a poco se non fosse unita alla capacità di chi lo abita di sfruttare al meglio le risorse naturali, badando a valorizzarle nel tempo. La storia travagliata del nostro paese, che lo ha visto per molto tempo frammentato e che ha conosciuto il contatto con culture le più diverse (da quella araba a quelle del Nord Europa), ha contribuito certamente alla varietà e ricchezza della nostra tradizione gastronomica, che peraltro è alla base della migliore dieta mediterranea. Cucina di carne, di pesce, specialità indiscutibili come la pasta (diversa nel Nord rispetto al Sud), l’arte dolciaria… Tutto questo è il frutto proprio dell’incontrarsi di due tipi di biodiversità: quella dell’ambiente e quella umana, che insieme costituiscono la base del nostro patrimonio di tipicità alimentari.

Tipico, cioè?

Se parliamo di prodotti tipici vediamo allora che sono tre gli elementi che li contraddistinguono: territorio, gusto, tradizione. Insieme questi tre elementi originano prodotti che sono impossibili da riprodurre altrove e che proprio per questo sono oggi così richiesti, ma al contempo sono anche oggetto di imitazioni dalle quali è importante difenderli. Paradossalmente, tra i tre elementi fondamentali di cui si è detto, il territorio per molti prodotti finisce per essere il meno importante: in California, ma anche in Australia e in Cile, ci possono essere condizioni climatiche e terreni che permettono di raggiungere ottimi risultati nella coltivazione di prodotti come la vite e l’ulivo, ma quello che non è possibile ricreare lì è l’esperienza secolare di chi in Italia ha imparato a fare il vino e l’olio d’oliva, tramandandosene e migliorandone la tradizione di generazione in generazione. La Fontina della Val d’Aosta è un formaggio unico perché il suo sapore è legato alle erbe dei prati dove pascolano le vacche, ma anche per la particolare tecnica di lavorazione che i pastori valdostani hanno a messo a punto in secoli di attività. Allo stesso modo, il prosciutto crudo di Parma ha una dolcezza caratteristica che in altre zone sarebbe impossibile ottenere, ma che dipende anche dall’esperienza di chi alleva i maiali, ha imparato ad alimentarli nel modo giusto e a lavorare le carni per sfruttare al meglio l’ambiente favorevole. Gli esempi potrebbero continuare, perché ogni regione vanta i suoi prodotti tipici, ed è proprio per difenderli dalle imitazioni, che l’Unione Europea ha spinto i produttori di ogni paese a “marchiare” i propri gioielli, in modo da renderli facilmente riconoscibili dagli altri.

I marchi della tipicità

Dal 1992 sono stati creati in Europa tre marchi diversi di tipicità: i marchi D.O.P. (Denominazione d’Origine Protetta), I.G.P. (Indicazione Geografica Protetta) e STG (Specialità Tradizionale Garantita): la presenza di uno di questi marchi su un prodotto è importante perché garantisce che è stato fabbricato in un determinato territorio, rispettando una serie di regole specificate per legge, che riguardano le materie prime, i procedimenti di produzione e le caratteristiche del prodotto finale. Ma che differenza c’è tra DOP, IGP e STG? Garantiscono tre livelli diversi di tipicità, e conoscerli bene è per noi particolarmente importante, se consideriamo che l’Italia vanta ben 822 prodotti marchiati DOP, IGP, STG su 3.036 totali nel mondo.

Il marchio DOP

Il marchio DOP, di “denominazione d’origine protetta” è il più stringente perché indica che TUTTE le fasi della lavorazione dell’alimento devono avvenire all’interno di uno specifico territorio: dalla produzione della materia prima sino al prodotto finale. Per esempio, il Parmigiano Reggiano è un prodotto DOP perché il latte (la materia prima utilizzata) è originario della zona di denominazione e nella stessa zona avviene tutta la lavorazione del formaggio.

Il marchio IGP

Il marchio IGP, di “indicazione geografica protetta”, è un po’ meno rigido perché viene rilasciato a quei prodotti per cui ALMENO UNA delle fasi di lavorazione (quella che dà al prodotto le sue caratteristiche tipiche) deve avvenire all’interno del territorio di tipicità. La Bresaola della Valtellina, per esempio, è un prodotto IGP perché si fabbrica in Valtellina secondo il procedimento tradizionale, ma per farla si usano carni di animali provenienti dall’estero (in Valtellina non si allevano abbastanza manzi per poter fabbricare tutta la bresaola che c’è in commercio…).

Il marchio STG

Infine, il marchio STG, di “specialità tradizionale garantita”, è la sigla meno restrittiva e viene rilasciata a quei prodotti alimentari che, vengono fabbricati un po’ in tutta Italia, ma possiedono comunque una loro immagine “tradizionale”. Per esempio, è un prodotto STG la mozzarella vaccina (fiordilatte), che viene prodotta in diverse regioni, ma che comunque, da qualsiasi parte provenga, presenta l’aspetto e le caratteristiche tradizionali dalla mozzarella italiana.

Esistono anche i PAT…

Se DOP, IGP e STG sono sigle importanti, non bastano a esaurire la gamma del tipico italiano. Quando si costituì l’Unione Europea, si scontrarono due filosofie diverse rispetto al cibo: al momento di mettersi d’accordo sulle regole generali, i paesi del Nord, orientati alla “sterilità” del cibo, avanzarono la proposta di vietare molte pratiche produttive consolidate dalla tradizione e adottarne altre per noi assurde. Per esempio si avanzò l’idea di piastrellare le grotte della Valsassina dove da sempre si stagiona il taleggio, quella di foderare di Teflon le conche di marmo dove si produce da secoli il lardo di colonnata, quella di utilizzare il fumo chimico liquido per affumicare le provole, al posto della paglia tradizionale… In risposta a queste proposte, ci fu la sollevazione del nostro governo e di quello degli altri paesi mediterranei che rivendicavano la sicurezza delle loro produzioni con l’evidenza che, nella prova degli anni, non avevano mai creato alcun problema. La diatriba fu risolta, per una volta, con il buon senso: si giunse infatti al compromesso di creare la categoria dei “prodotti agroalimentari tradizionali” (PAT), inserendo nel gruppo tutti i prodotti che, sul mercato da almeno 25 anni, hanno acquisito di fatto lo stato di prodotti tradizionali, e non hanno mai comportato problemi di salute per i consumatori. Ogni anno il nostro Ministero delle politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo (Mipaaft) aggiorna e pubblica l’elenco dei PAT, che nel 2019 sono arrivati a essere ben 5.128. Viviamo davvero nel Paese del buon cibo!

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